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Alzheimer: in che modo la medicina punta alla prevenzione della comparsa dei sintomi

Alzheimer: in che modo la medicina punta alla prevenzione della comparsa dei sintomi

Con gli avanzati strumenti di cui dispone, la ricerca punta oggi all’identificazione di biomarcatori genetici, biochimici e neuropsicologici capaci di indicare i pazienti a rischio di demenza molti anni prima della comparsa dei sintomi clinici. In assenza di una terapia risolutiva, anticipare la diagnosi consente di intervenire prima dell’innesco di alcuni processi e che i danni siano irreversibili.

Tra le molecole allo studio, che hanno superato le prime fasi della sperimentazione farmacologica, ci sono composti che impediscono il formarsi della proteina neurotossica beta-amiloide e anticorpi monoclonali che la rimuovono quando è già presente nell’encefalo. In particolare, questi farmaci hanno effetti collaterali, come edema ed emorragie, e finora non si sono dimostrati efficaci, perché ad esempio l’amiloide sparisce ma i disturbi cognitivi restano.

Oltre a modificare il decorso della malattia, gli scienziati cercano di prevenirne la comparsa, agendo sui fattori di rischio da un lato e, dall’altro, migliorando la conoscenza delle sue basi biologiche. In quest’ottica, ha appena avuto inizio anche in Italia uno studio multicentrico internazionale mirato a valutare l’efficacia di una molecola, al momento indicata con la sigla CNP520, che blocca uno degli enzimi che producono il peptide beta-amiloide, inibendone così la sintesi.

In Italia, i centri coinvolti sono il Policlinico «A. Gemelli», il Policlinico di Milano, il Policlinico di Chieti e il Fatebenefratelli di Brescia. Le persone che verranno reclutate sono soggetti senza disturbi cognitivi, hanno un’età tra i 60 e i 75 anni e presentano uno specifico fattore di rischio genetico.

«Tutti noi siamo portatori di due copie del gene della Apolipoproteina E (detta ApoE), del quale esistono nella popolazione generale diverse varianti; i soggetti portatori della variante “epsilon 4” hanno un aumentato rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer» spiega Antonio Daniele, neurologo del Policlinico «A. Gemelli» dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, responsabile dello studio per il suo centro.

«Nello studio “Generation”, i soggetti che risulteranno portatori di due varianti “epsilon 4” del gene ApoE potranno essere inclusi nello studio, avendo un rischio aumentato di circa 10 volte di sviluppare la malattia di Alzheimer. I portatori di una sola variante “epsilon 4” hanno un rischio aumentato di circa 3 volte sviluppare la malattia e potranno essere inclusi nello studio soltanto a condizione che un esame PET cerebrale con un tracciante per la beta-amiloide dimostri la presenza nel loro cervello di un accumulo di beta-amiloide» spiega Daniele.

Un sottogruppo di soggetti riceverà la molecola CNP520 e un sottogruppo riceverà placebo. Il “follow up” a cinque anni dirà se nei soggetti trattati con il farmaco compariranno meno disturbi cognitivi. La speranza è che «il farmaco, riducendo la produzione del peptide beta-amiloide neurotossico, ritardi o prevenga la comparsa dei sintomi della malattia di Alzheimer, senza rilevanti eventi avversi.

«Nella malattia di Alzheimer, l’efficacia di un farmaco deve essere valutata non solo mediante la rilevazione di un’eventuale riduzione dell’accumulo di proteine neurotossiche come la beta-amiloide, ma anche mediante la rilevazione di significativi benefici clinici per quanto riguarda sintomi cognitivi e sintomi comportamentali».